Seguo il lavoro di Tranchino da più di vent' anni: da quando, non so più sul qual giornale e per qual mostra, ho visto la riproduzione di un suo quadro e, capitando a Siracusa, in compagnia di Dominique Fernandez, che allora passava le estati in una casetta sul mare di Pachino, sono andato nel suo studio. Lavoro, dico, per improprio - in questo caso - modo di dire: Tranchino, stendhalianamente e savinianamente, non lavora (e ricordo una memorabile pagina di Savinio, di introduzione a una cartella di litografie di Fabrizio Clerici), si diletta: dipinge cioè con diletto, con piacere, come in una prolungata vacanza -- tanto prolungata --, continua ed intensa da assorbire interamente la sua vita. E forse appunto da ciò nasce l'attenzione, il sodalizio, I'amicizia che ci lega: dal reciproco riconoscerci dilettanti proprio nel senso di cui discorreva Savinio per Clerici. E non che il dilettarsi escluda i «latinucci», la ricerca, I'inquietudine, il travaglio, il guardarsi dentro a volte con sgomento e il guardar fuori con prensile attenzione e a volte avidamente: ma in una sfera, sempre, di «divertimento», di gioco esistenziale. Un gioco in cui ha gran parte la memoria, il suo trasmutarsi o mutarsi in mito, favola ad avvertimento del presente; del destino, anche: e così trascorrendo le immagini, le metafore, gli emblemi da Omero a Conrad, con alquante postille borgesiane.

Nato a Siracusa nel 1938, Tranchino non se ne è mai allontanato se non per periodi brevissimi a presenziare a mostre proprie o per vedere quelle di altri pittori a lui congeniali, in Italia e fuori. Il suo più lungo soggiorno credo sia stato a Parigi, per apprendervi la tecnica dell'acquaforte, mezzo di espressione che sempre più l'attrae (ed è pure da notare, in questi ultimi anni un suo più intenso disegnare, una più forte carica di disegno nella sua pittura).


Otto Weininger diceva che a Siracusa si può nascere o morire, non vivere. Pensava, forse, a Platen che è andato a morirvi. Ma Tranchino non solo serenamente vi vive, ma ne rivive i miti lontani (che a volte appaiono come «citazioni» di De Chirico, di Savinio) e quelli dell'infanzia: tra il mare e la campagna, nei dissepolti splendori di una civiltà impareggiabile.

Leonardo Sciascia

L’ISOLA NON LASCIATA

A che pro allontanarsi, anche se delle navi, da molto, sono approdate alla banchina, forse ad invitare al viaggio. La Sicilia, può farsi insopportabile. È tanto vero che di essa, in un tempo non lontano, era impresso nella mente e nel corpo del pittore Tranchino, il terremoto: come un fantasma richteriano sulle tele dell’atelier della Mastra Rua siracusana. Non che, una volta distrutto il mondo naturale o architettonico insieme alla legge ortogonale di gravi, scandagliasse il caos; ma le forme della sua pittura sembravano nascere dalla scossa ctonia, nel sospeso stare in bilico di balconate, muri del giardino, palme nane, colonne mozze, uomo tormentato intorno a un libro, chiazze interstiziali di colori, la casa, approdi…

Dentro a ogni siciliano sta l’esperienza del terremoto, anche se solo atavica. Come nei libri di Enzo Consolo, dove si narra, metaforicamente, la catastrofe. Se, in origine, non fosse avvenuta la catastrofe della lingua, non leggeremmo  Il sorriso dell’ignoto marinaio e altri racconti. Qualcosa di analogo è successo a Tranchino relativamente alla pittura, per cui le forze telluriche l’hanno liberato,davvero surrealmente, dall’armonia prestabilita del mondo.

Dopo il terremoto si è soliti ricostruire da capo, ma molti quadri del pittore di Siracusa rifiutano questo lavoro di Sisifo; essi propongono un mondo diverso da quello di prima,per cui sono state reinventate la relazione tra i colori e gli oggetti, il rapporto degli oggetti tra loro, la configurazione dello spazio… Così era decisamente nelle opere di pochi anni fa.

Oggi lo spettatore continua a sentirsi provocato dall’esperienza vissuta del terremoto. Non verrà ricuperata la barriera del naturalismo: la dissociazione lega forme e colori, la luce si origina dal meridione, ma cambia la tela se sopra ci batte un raggio algido di sole e rivela un recesso del vegetale; gli oggetti, anche grandi, provengono spesso dai ricuperati giocattoli della infanzia. Senonchè  i significanti sono stati rigorosamente individuati, non giustapposti, anzi combinati tra loro grazie agli spazi interstiziali, come in un racconto stringato. Sono i significanti di Tranchino, i significanti del viaggio: del viaggiatore sognante che non lascia l’isola e dipinge mondo e oggetti, i quali rimandano a lui, che lo dicono e dicono chi li guarda e ne assume il fascino.

Come i souliers di Van Gogh erano emblemi del pittore olandese, le navi, la macchina, la coda di un aereo… e non meno i colori usati, indicano l’uomo Tranchino. La sua nave è un oggetto catturato nelle braccia del porto, la sua macchina un oggetto catturante che nel parabrezza accerchia una ellisse di paesaggio, il cagnolino interroga il quadro e salta dentro, le colonne e le piante stanno lì, le balaustre tonde fanno angolo… Sulla banchina o nel giardino c’è un uomo, che spesso legge, una volta addirittura scrive; può distrarsi dalla sua lettura, volgere le spalle al mare, o forse intravederlo, essere attratto dalla visione sfumata che se ne ha in lontananza nello squarcio della verdura.

L’uomo Tranchino vive a Siracusa, e Siracusa è un porto, un invito al mare aperto e al viaggio, ma lui, il pittore, non s’imbarcherà per girare il mondo, assomiglia al personaggio dei suoi quadri, all’uomo dormiente dalla confortevole veste da camera che indica la strada e la macchina da corsa: in sogno. Il pittore della  Mastra Rua è l’uomo che legge racconti di viaggi interiori o avventurosi come nei quadri, mentre i luoghi di vera elezione per lui sono la passeggiata alla marina o il giardino da cui si intravede il mare. Se sale sulla macchina è per catturare paesaggi. La sua pittura nega il viaggio reale, preferendo coglierne gli emblemi e goderseli sensualmente nella prigionia di forme e colori inventati nella stanza dell’atelier.

 Il mondo si rivela nel quadro: a te spettatore, che lo guardi quando è compiuto in una essenza di rapporti che avvolgono un mistero o nascondono paura, meraviglia, nostalgia… e non sai più se appartengono all’artista o a te. Il pittore dice che il suo quadro, ogni quadro suo, è una navigazione: forse in questo senso assomiglia al libro, che lo si scriva o legga, in quanto la scoperta viene fatta nella durata Quando si avvicina al cavalletto, Tranchino non sa a priori cosa sarà il suo quadro, lo scopre e lo inventa a poco a poco, come è appunto un viaggio.

Claude  AMBROISE 

Un mondo “come potrebbe essere"

Raramente, penso, abbiamo immediatamente, nei confronti delle opere di un artista, pensieri critici articolati. A meno di non essere critici di mestiere. Di solito reagiamo emotivamente, con godimento,  con indifferenza, o magari con irritazione. Ancora meno ci mettiamo a razionalizzare se si tratta di opere di un artista amico.

Gaetano Tranchino è uno straordinario artista  ed è mio grande amico. Ma lui vive a Siracusa, io a Milano. Vedo i suoi quadri nel suo studio, quando lo vado a trovare, e magari, tra una visita e l’altra, passano mesi. Vedere i quadri nuovi è per me un rituale dell’amicizia, si carica di emozioni, di sentimenti che costituiscono una parte importante della nostra complicità di persone che si conoscono da molto tempo. Non mi preoccupo certo, in quelle occasioni, di definire un pensiero critico sulle opere. Questo si va mettendo a fuoco dopo, a poco a poco, magari per sollecitazioni di letture che con quei quadri apparentemente non c’entrano, nel corso di successive conversazioni sui nostri diversi lavori, o su cose che hanno a che fare con la vita più che con il dipingere e il fotografare.

Di Giorgio De Chirico, che ammirava molto, Renè Magritte ha scritto che la sua rivoluzione consiste nel fatto che: “rompendo con tutto quanto si era fatto fino ad allora, si mise a dipingere il mondo non com’è, né come lui lo vedeva, ma come potrebbe essere, dovrebbe essere”. Mi pare un lucido, straordinario complimento. Quando ho letto questo giudizio subito mi è sembrato che la frase perfettamente corrispondesse al sentimento, più che ad un pensiero criticamente elaborato, che mi abita quando sono di fronte ai dipinti di Gaetano Tranchino.

Anche Tranchino crea immagini di un mondo “come potrebbe essere, come dovrebbe essere”.

Quello che sto cercando di dire, di capire innanzitutto io stesso, è che non mi sembra bastino per i dipinti di Tranchino, forse addirittura non servono, i criteri della fantasia, del sogno, della visionarietà. Il sentimento fortissimo che ogni volta si rinnova, e specialmente con le opere di questa fase più recente del suo lavoro, è quello di trovarmi di fronte a immagini di perentoria verità, che mettono in scena un mondo tanto più reale quanto meno esse sono realistiche. Un mondo, appunto, non sognato, non frutto di fantasia, di visione dell’artista, come si suole dire. Un mondo, al contrario, che impone il suo come dovrebbe essere, con l’esistenza che potrebbe avere.

E’ radicatissimo Tranchino nella sua isola, addirittura in Ortigia, isola dell’isola. Ma nonostante ciò, forse anzi proprio in virtù di questo quasi nevrotico radicamento, il mondo che ci racconta è universale. Del resto, il suo dialogo culturale non è specialmente siciliano.

Certo, se uno conosce Gaetano può con  evidenza trovare in queste immagini tanti elementi della sua vicenda personale,  del suo essere così anticamente siracusano e siracusanamente antico.

Le automobili, il mare tempestosissimo e dolce, familiare persino, che a volte circonda penisole, altre volte tavoli, armadi. Questi armadi sono muniti di specchi che spesso riflettono immagini diverse da quelle che hanno di fronte. Pezzi di archeologia, colonne, navi immense dalle quali fioriscono fumi di pietra,  giardini, in mezzo ai quali ci sono uomini che leggono, che scrivono, sembrano ascoltare musica, cagnolini, figurine di fanciulle che appaiono e scompaiono tra le palme.

Frammenti di esperienze reali, certo, che appartengono alla memoria di Tranchino, ma che si ha come l’impressione che siano usciti dalla coscienza del pittore per andarsene per conto loro a capricciosamente  comporre un mondo nuovo, autonomo, diverso, con un suo proprio tempo e spazio, di sconosciuta geografia, che ha forme e colori mai visti e obbedisce ad altre leggi della statica e della tettonica. Questo mondo, questo universo impone al pittore - che è il solo, si direbbe, ad avere il diritto di vederlo, di viverci dentro - di essere rappresentato, di affermare la propria realtà attraverso il mistero della pittura, in modo che anche noi possiamo conoscerne l’esistenza, approfittare della sua bellezza necessaria.

Una volta incontrato questo universo esso si rivela inconfondibile. Inequivocabilmente, riconosceremo per sempre queste immagini come dipinti di Gaetano Tranchino. Forse è questo il mistero della pittura, dello stile, parole difficili, spesso ambigue, che qui sembrano trovare la propria evidenza.

Un universo poetico preciso che attraverso un artista trova la forma esatta per esistere, per entrare a fare parte della nostra vita.

Ferdinando SCIANNA